Carletto Mazzone, gli 84 anni di “Sor Magara”
19 Marzo 2021
Ci sono personaggi destinati a legare il proprio nome non ad una squadra, non ad un territorio, non ad un’epoca. Ma ad essere, banalmente, “di tutti”, di quel meraviglioso cosmo chiamato calcio. Carlo Mazzone è sicuramente uno di questi: certo, probabilmente quel “di tutti” non si potrà mai estendere ai tifosi laziali o bergamaschi, ma insomma, ci siamo capiti: Sor Magara, che oggi arriva alla veneranda età di 84 anni, è uno degli allenatori iconici del mondo del pallone, capace di rimanere attuale nelle varie epoche senza mai perdere, tuttavia, il proprio inconfondibile stile.
In pochi ricordano le gesta del Carletto calciatore e, difatti, non è che poi ci sia molto da raccontare. Gioca nelle giovanili giallorosse, d’altronde al cuor non si comanda, e dopo un prestito al Latina, riesce addirittura a giocare due partite con la prima squadra, all’epoca allenata da Gunnar Nordahl, il famoso svedese del Gre-No-Li: debutta il 31 maggio 1959 contro la Fiorentina e la leggenda narra che il padre seppe del prestigioso traguardo del figlio l’indomani mattina, quando al bar tutti gli fecero i complimenti. Altro che storie su Instagram e followers. Ma la parentesi più significativa, anche per quello che succederà in seguito, è quella di Ascoli: ci arriva nel 1960 e nel Piceno mette le radici, restando nove stagioni con oltre 200 presenze. È il faro della retroguardia bianconera, fino al giorno in cui in un derby con la Sambenedettese la gamba lo tradisce. Quando torna non è più lui, deve appendere le scarpe al chiodo e finisce dritto in panchina, ad allenare nel settore giovanile.

E qui arriva l’incontro che forse segna la carriera, quella con Costantino Rozzi. Il Presidentissimo, famoso per i suoi scaramantici calzettoni rossi, si affida per ben tre volte a lui anche per la prima squadra, in attesa di scegliere il nuovo allenatore. Carletto ubbidisce, esegue il compito egregiamente e poi torna nel vivaio. Anche perché con Rozzi ha stretto un patto da uomini, visto che lui teme soprattutto di perdere il lavoro: «Sei una persona perbene – gli fa il Pres – qualunque cosa dovesse accadere tornerai comunque ad allenare i giovani. E dovessi io lasciar l’Ascoli ti prendo a lavorare con me». Che nostalgia per i tempi in cui bastava una stretta di mano…
Comunque Mazzone non si deve preoccupare per il futuro (con l’amata Maria Pia ha già due figli e giustamente vuole garantir loro un avvenire), visto che in panchina ci sa fare. Eccome se ci sa fare. Quando Rozzi gli affida definitivamente la squadra, la porta dalla C alla A, salvandosi. E lo fa con un calcio moderno, che si potrebbe definire “totale” visto che a metà degli anni Settanta spopolano gli Oranje di Rinus Michels: «Parlate tutti di zona e di pressing. Non vi serve andare in Olanda a vederlo, vi basta guardare l’Ascoli di Mazzone» sentenzia Fulvio Bernardini, uno dei più apprezzati tecnici di allora, durante un corso a Coverciano. Parole che fanno sorridere pensando che talvolta, così come per Trapattoni, Mazzone è stato accusato di difensivismo.

Quando chiude la parentesi ascolana, passa alla Fiorentina e affida la fascia di capitano ad un giovanissimo Giancarlo Antognoni, che ancora oggi non si spiega dell’investitura. Ma, lo scopriremo sotto, ci saranno altre occasioni in cui Carletto dimostrerà di saper intuire il potenziale di un atleta, seppur ancora di primo pelo. Catanzaro, un altro quadriennio ad Ascoli, Bologna, Lecce, Pescara e Cagliari, fino ad arrivare agli anni Novanta e alla chiamata della sua Roma, che allenerà dal 1993 al 1996. Già, perché nel frattempo il curriculum si è arricchito di numerose salvezze, di una promozione in Puglia e di una qualificazione in Coppa UEFA coi sardi, dopo oltre vent’anni. Rapportato al materiale a disposizione, niente male.

La Roma di allora non era certo una delle big del torneo e chiude quel triennio con un settimo e due quinti posti. Con un 3-0 nel derby del 1994 firmato Balbo, Cappioli e Fonseca che lo fa acclamare dalla Sud. Ma c’è una cosa, in particolare. per cui il popolo giallorosso deve ringraziare ogni mattina Mazzone: «Mi hai fatto crescere come uomo e calciatore. Mi hai difeso, spronato e mi hai fatto tenere la testa sulle spalle. Chissà come sarebbero andate vita e carriera se non ci fossi stato tu». Le parole sopra non sono di uno qualsiasi, ma di Francesco Totti. Il Pupone è poco più che un adolescente quando prende parte ad una partitella con la prima squadra, Mazzone ne è stregato e lo vuole subito coi grandi, anche se ha sedici anni. E nel già citato 1994 lo fa giocare titolare in Coppa Italia. Ma c’è un altro momento in cui Mazzone, pur non essendo più tecnico giallorosso, è vicino a Totti: quando nel 1997, con Carlos Bianchi che “non sopporta i romani”, rischia di andare alla Sampdoria. Il suo mentore lo ascolta, gli sta vicino e lo convince a restare. E a fare le valigie è proprio il tecnico argentino, che a Roma non apprezzano e che soprannominano il Mago Galbusera. Ah, giusto per non dimenticare un altro passaggio storico dell’avventura a Trigoria: «Amedeo – riferito al terzino Carboni, che in una partita continuava a fare su e giù per la fascia sinistra, spingendosi avanti – quante partite hai giocato in Serie A?». E lui: «350, mister». «E quanti gol?». Risposta: «Quattro». Sentenza: «Ecco, allora me devi spiegà ‘ndo c***o vai». Breve, sintetico, diretto.

Due parentesi poco fortunate a Napoli e Cagliari, portano poi Mazzone ad un ritorno a Bologna. I felsinei si sono appena privati di Baggio e vogliono rilanciare un altro protagonista della Serie A come Signori, caduto in disgrazia: con un lungo cammino partito dalla Coppa Intertoto arriva addirittura in semifinale di Coppa Uefa, dove dopo aver eliminato squadre ben più quotate come Betis Siviglia e Lione è addirittura avanti a tre minuti dalla fine nel ritorno casalingo con il Marsiglia, grazie ad un gol di Paramatti: è un contestato rigore di Blanc, ripetuto peraltro due volte, a mandare i francesi all’epilogo conclusivo col Parma, che poi farà suo il trofeo, vendicando i corregionali.

Anche a Perugia scrive una pagina di storia: è il 1999-00, anno del famoso litigio tra il suo presidente Gaucci, cui riesce nell’impresa di resistere un anno intero, e Matarrese, al termine di una sfida tra gli umbri ed il Bari. Il 14 maggio, all’ultima giornata, i grifoni sono già salvi e al termine di un incredibile ed infinito acquazzone, battono la Juventus di Ancelotti con gol di Calori, privandola del titolo. Lo scudetto, ironia del destino, Mazzone lo consegna alla Lazio.
E si arriva così a Brescia, dove ci sono almeno quattro episodi degni di menzione, a dimostrazione che a contare, in qualsiasi ambito, non è l’età anagrafica ma le idee e la mente brillante. Cominciamo da Andrea Pirlo, che in quegli anni sembra essersi perso: il talento bresciano torna all’ovile in prestito, con la maglia numero 5 sulle spalle, dopo esser stato chiuso all’Inter ed aver cercato invano fortuna con un altro trasferimento temporaneo a Reggio Calabria. Mazzone lo inventa “volante” davanti alla difesa, felice intuizione che sarà poi ripresa da Ancelotti dopo il passaggio al Milan, dove diventerà uno dei punti di forza dei rossoneri, bicampioni d’Europa, e perno imprescindibile della nazionale azzurra nella corsa iridata del 2006.
E se questo è un colpo da maestro, questo è forse ancora meglio: nell’estate del 2000, un anno prima del ritorno di Pirlo a Brescia, Roberto Baggio si sta allenando a casa. A distanza di un lustro dalla cavalcata di Usa 1994 ha segnato due reti nello spareggio Champions con l’Inter, ma è rimasto senza squadra, segnato nel profondo da quel calcio che l’ha praticamente dimenticato: si parla con insistenza di un trasferimento a Reggio Calabria, ma lui non vorrebbe allontanarsi così tanto da Codogno e dalla sua famiglia, per cui la chiamata arriva proprio al momento giusto. «Robbè sono Mazzone. Ho letto che vai alla Reggina, è vero? Anzi, scusa, io non vojo sapè se ce vai o nun ce vai, però te vojo dì ‘na cosa: ma perché non vieni a Brescia». E alla risposta del Divin Codino il tecnico chiama Corioni, il presidente delle Rondinelle, che si convince in tempo zero. Il resto è storia, con quattro salvezze di fila, un Baggio tornato agli antichi splendori e una qualificazione sfiorata alla Coppa UEFA dopo un’altra cavalcata in Intertoto.

Per il famoso detto del “non c’è due, senza tre”, bisogna tornare indietro di quasi venti anni, al 30 settembre 2001. Al Rigamonti va in scena il derby con l’Atalanta, che è avanti 3-1 all’intervallo ed i tifosi della Dea lo insultano per tuttala gara: Baggio accorcia le distanze e il mister avvisa che «Se famo er terzo, vengo sotto ‘a curva». Detto, fatto: il 3-3 arriva sempre con il numero 10 e Mazzone scatta come un centometrista, dribblando il suo staff e gridando «Li mortacci vostra» ai supporters bergamaschi. Collina, lo stesso arbitro di quel Perugia-Juventus, si avvicina per espellerlo ma viene anticipato: «Lo so già, vado fuori», sentenzia Sor Magara, prima delle cinque, inevitabili, giornate di squalifica.

Per chiudere, la chiamata del 2009 di Guardiola, allenato proprio ai tempi del Brescia: «Mister, sono Guardiola». «E io sono Garibaldi» risponde dalla sua casa di Ascoli l’ormai attempato allenatore, che ha chiuso nel 2006 a Livorno arrivando a 795 partite in Serie A, superando Nereo Rocco. Si pensa ad uno scherzo ma è proprio Pep che lo vuole all’Olimpico per la finale di Champions League tra il Barcellona e lo United. «Ma tu pensi a me quattro giorni prima della più importante partita dell’anno?» chiede un incredulo Mazzone, di fronte all’ennesimo apprezzamento di uno dei suoi grandi ex calciatori. E accetta, con enorme gratitudine, osservando dalla tribuna il primo trionfo continentale dell’era tiqui-taca.
Damiano Reverberi

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