Aleksandr Mostovoj, il Patrono della Galizia
22 Agosto 2021
“Attenzione, qui non siete in Spagna. Siete in Galizia”.
Ha la maglia del Celta e i pantaloncini militari, questo signore panciuto e calvo, che, fucile sotto braccio, incontro di buon mattino su una via del Cammino di Santiago, meta di pellegrinaggio fulcro della regione spagnola che sogna l’indipendenza (in buona compagnia dei Paesi Baschi) e che si fa vanto di questo. Lo guardo andare via, e vedo che sulle spalle, grandi e possenti, ha il 10 e un nome, quello di Mostovoj. C’era da aspettarselo, penso, sarebbe stato troppo ovvio trovare un nostalgico del Super Depor di qualche tempo fa. Qui, cuore della Galizia, più o meno alla stessa distanza da La Coruna e da Vigo, quel cacciatore non poteva che avere quel numero e quel nome sulle spalle, un nome da romanzo russo che richiama storie di grandi vittorie, di prime volte indimenticabili, legate all’epoca d’oro del Celta, che mai, come negli anni di Aleksandr, ha realizzato sogni ed imprese
semplicemente inimmaginabili fino a pochi anni prima. Ovviamente, non soltanto grazie a El Zar (soprannome che sembra inevitabile per ogni calciatore russo che si rispetti): con lui anche altri grandi (o semplicemente buoni) calciatori che hanno reso quel Celta una bella favola da
raccontare. Da quel cacciatore galiziano comincio il racconto di quello che Mostovoj, capitano e numero 10, e quel Celta hanno rappresentato in quegli anni. Iniziamo, dalla fine, o quasi.
La prima volta in Coppa dei Campioni per il Celta
Mostovoj arriva dalle parti dello stadio Balaídos dopo l’Europeo del 1996. Prima di Vigo gli inizi al Krasnaja Presnja, poi lo Spartak Mosca, la consacrazione europea con Benfica, Caen e Strasburgo. Ed ecco il Celta, inizio di una avventura che trova la sua consacrazione con la partita
perfetta, il coronamento di tante stagioni positive. E’ il 15 giugno del 2003 e al Balaídos arriva la Real Sociedad; i galiziani devono vincere per forza se vogliono partecipare alla prossima Coppa dei Campioni. Numero 10 sulle spalle, sguardo truce come richiede l’importanza dell’occasione. Lo
stadio ribolle di entusiasmo e di orgoglio, il Celta affronta la sfida con coraggio, guidata da quel ragazzo russo ormai cittadino onorario della Galizia. Al suo fianco giocatori di valore assoluto: Luccin, Sylvinho, addirittura Mido. Per farla breve: il Celta vince 3 a 2, Mostovoj segna un gol e mezzo (di fatto sarebbero due, visto che il vantaggio arriva su un tiro del russo deviato in maniera involontaria da Edù), il secondo con uno splendido colpo di testa a coronamento di una grande azione dei galiziani (l’invito è ad andare a vedere la sintesi su Youtube, e ascoltare il telecronista spagnolo dopo il gol dello Zar). Non può essere un caso dunque che nella partita più importante della storia del Celta sia stato Mostovoj a lasciare il segno. Nella successiva Coppa dei Campioni i galiziani non sfigurano al cospetto di avversarie ben più blasonate: secondi nel girone dietro al Milan (0 a 0 in Spagna, vittoria per 2 a 1 a San Siro: Mostovoj non è in campo, ed è il 2003/2004 l’ultima stagione giocata a Vigo, prima di passare all’Alaves), eliminati agli ottavi dall’Arsenal.
La batosta alla Vecchia Signora
Un altro passo indietro. Coppa Uefa 1999/2000, un anno prima il Celta si era fermato ai quarti, dopo aver eliminato il Liverpool. Dunque non propriamente un avversario da sottovalutare, tanto più che prima di affrontare la Juventus agli ottavi, il Celta aveva travolto il Benfica. Arriva il momento della Vecchia Signora, che vince a Torino per 1 a 0 ma che al Bailados trova 11 demoni capitanati da un comandante russo che sente fin da subito l’odore dell’impresa. Nel catino traboccante dell’amore di 33mila tifosi, Mostovoj si prende sulle spalle i compagni, apre la via per il
vantaggio di Claude Makelele (non uno qualunque), gioca una infinità di palloni, disegna calcio insieme a Karpin, Gustavo Lopez e Benny McCarthy, uno dei giocatori più romanticamente incompiuti della storia del calcio, che in quella partita segna 2 reti. Serata memorabile, che sancisce e conferma il soprannome di EuroCelta che i galiziani si erano guadagnati in quegli anni,
nei quali sono stati stabilmente tra le prime forze della Liga e hanno sempre ben figurato nelle Coppe Europee, dopo peraltro una lunga assenza.
Compagni di imprese
Sarebbe ingiusto ridurre al solo Mostovoj i meriti di quella epoca dorata del Celta. Arrivato in Galizia nel 1996, il russo resta all’ombra del Bailados fino al 2004, incontrando sulla sua strada numerosi grandi calciatori, anche vecchie conoscenze del nostro calcio. Per esempio nel 1996 ad
attenderlo trova Mazinho (esattamente) e Vladimir Gudelj, monumento del calcio bosniaco dal quale erediterà la maglia numero 10. Non possiamo dimenticare Haim Revivo e Valeri Karpin, russo anche lui e talentuoso tanto quanto Mostovoj. Il già nominato Makelele, il passaggio di Jordi
Cruyff, il bomber bulgaro Penev, l’ennesimo frutto di una generazione di funamboli portoghesi chiamato Bruno Caires (uno che ogni estate sembrava sul punto di sbarcare in Italia), un giovanissimo Michel Salgado, che al Celta cresce e diventa quello che sarà pilastro del Real Madrid, e ancora Celades, Juanfran e il sudafricano Benni McCarthy, la meteora giallorossa Vagner, il sempre affidabile Luccin, Mido e Sylvinho, Savo Milosevic senza dimenticare la comparsata di Mauricio Pinilla.
Il Cammino di Aleksandr
Quello che Mostovoj ha portato sul campo del Bailados negli anni del Celta ha lo stesso odore dei lussureggianti boschi galleghi, la stessa luce delle distese di girasoli che conducono a Santiago, lo stesso sapore selvaggio delle scogliere di Finisterre, dove il mondo antico finiva. Onde potenti
che vanno ad infrangersi su rocce che sembrano invincibili, e che invece venivano travolte. Lo stesso che faceva Mostovoj con il Celta Vigo di quegli anni, orgoglio della Galizia. Giusto un po’ meno dell’Estrella Galicia (una birra che non è spagnola, ma galiziana: occhio, se capitate dalle parti di Vigo e incontrate un cacciatore con la maglia numero 10).
di Yari Riccardi

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