Privacy Policy Dall’estasi all’inferno in tre minuti. La maledizione di Matthäus: da Vienna a Barcellona, dal Porto ai Red Devils

Dall’estasi all’inferno in tre minuti. La maledizione di Matthäus: da Vienna a Barcellona, dal Porto ai Red Devils

26 Maggio 2020

Che succede quando il mondo crolla in pochi minuti? Sono qui a rivivere gli attimi della mia carriera e mi ritrovo a pensare al 26 maggio del 1999. Alla mia seconda e ultima finale di Coppa dei Campioni. La prima è finita in un modo che non riesco a dimenticare. Mai avrei pensato che la seconda sarebbe finita anche peggio. Peggio di qualsiasi cosa. Perché se avete vissuto una carriera come la mia, alla quale manca soltanto un tassello per essere completa e indimenticabile, converrete con me che non è giusto quello che vi sto per raccontare. Sì, certo, il calcio, la palla è rotonda, e tutte le altre cose. Cazzate. Tutte cazzate. Giocatela voi, la finale di Barcellona del 1999. E poi venite a dirmi che è solo un gioco, e che dovrei farmene una ragione. Ho vinto un mondiale del resto, no? Eppure ho ancora gli incubi sulla Coppa dei Campioni. Hanno solo cambiato le facce e il colore della maglia. E non hanno rumore. Solo quello di due maledetti pali che nei miei ricordi stanno ancora tremando.

Camp Nou, Barcellona, ore 20:30 del 26 maggio 1999.

Abbiamo già affrontato lo United durante i gironi di quella Coppa dei Campioni. Per me è impossibile chiamarla in maniera diversa, l’ho giocata talmente tante volte che quel nome lì, Champions League, non riesco davvero a farlo mio. Ho giocato nella più prestigiosa Coppa d’Europa con le due squadre della mia vita, il Bayern Monaco e l’Inter. E stavolta sono di nuovo in finale. Non andrà come a Vienna, quando il 1987 una giocata paranormale – o divina, visto che l’hanno definito il Tacco di Allah – di Madjer ha aperto la strada alla rimonta del Porto. Ancora oggi, quando ne parlo con Brehme e ricordiamo i gol sbagliati da Michel Rummenigge, ci vengono le lacrime agli occhi.

Ma oggi possiamo vendicarci come squadra, e io posso rompere la maledizione. Ho vinto tutto, questo è meglio dirlo subito: scudetti, un Mondiale, un Campionato Europeo, due volte la Coppa UEFA, il Pallone d’Oro. Mai una Coppa dei Campioni. Me la merito. E adesso entro a prendermela. Entro a vincerla insieme ai miei compagni. Siamo pronti: è il nostro terzo incontro con i Red Devils in questa Coppa. Nel girone abbiamo pareggiato sia all’andata che al ritorno, e abbiamo passato insieme il turno mettendoci alle spalle il Barcellona. Noi ai quarti abbiamo spazzato via il Kaiseslautern e ce la siamo vista molto brutta con la Dinamo Kiev in semifinale. Erano indemoniati gli uomini di Lobanovskiy. In Ucraina quel ragazzo con il numero dieci ci sfuggiva sempre. I suoi due gol all’inizio sono stati anche pochi rispetto alla qualità di gioco espressa da quella squadra. Ma noi siamo il Bayern: abbiamo segnato il 3-3 con Jancker, e al ritorno abbiamo vinto con il gol di Basler. Volevamo questa finale, adesso siamo qui. Per vincerla.

Ore 20:45, il fischio d’inizio

La formazione iniziale del Bayern Monaco: Tarnat, Scholl, Jancker, Effenberg, Basler, Linke; Jeremies, Zickler, Kuffour, Kahn, Matthäus

A protezione di Oliver ci sono io. Poco davanti a me Kuffour e Linke, sulle fasce Babbel e Tarnat. A fare da diga a centrocampo ci pensa Jeremies al fianco di Effenberg – non è quello che avete conosciuto alla Fiorentina, al Bayern è tornato quello che è sempre stato – mentre davanti ci sono Basler, Jancker e Zickler. Di fronte a noi i Calipso Boys York e Cole, e Giggs con Beckham, e ancora Butt, Blomqvist, Irwin, Stam, Johnsen, Gary Neville e Schmeichel in porta. Voglio essere chiaro, non sono io ad aver buona memoria. È che i gli episodi non troppo belli della vita non riesco mai a dimenticarli del tutto. Vorrei, ma già appena sceso in campo ho avuto una cattiva sensazione. Una di quelle che appena arrivi scacci con un pensiero positivo. Guardo i miei compagni. Sono pronti, carichi, sanno cosa vuol dire giocare quella finale e molti sanno anche quanto questa partita stia a significare per me. Collina fischia il calcio d’inizio.

La formazione del Manchester United: Schmeichel, Yorke, Cole, Johnsen, Stam, Giggs; Blomqvist, Butt, Beckham, G. Neville, Irwin
Credits: Popperfoto – Getty Images

Ore 20:51

Partiamo fortissimo. Il predominio del campo e delle iniziative è subito nostro. La difesa risponde ai miei ordini, i ragazzi coprono e ripartono, ogni iniziativa è ben tamponata e subito rilanciata da Jens e Stefan. Davanti Mario, Carsten e Alexander sembrano in giornata. La sensazione di disagio che ho avuto all’ingresso in campo svanisce col passare dei minuti. Un nostro contropiede perfetto viene bloccato dagli inglesi al limite della loro area. Mi viene in mente la punizione che ho tirato contro il Napoli con la maglia dell’Inter, gol e scudetto. Ancora mi ricordo la gioia del Trap dopo quella gara. Sono in mezzo ai ricordi e vedo Basler che prende la palla e sembra pronto per battere: calcia a mezza altezza, Babbel in barriera si sposta quel tanto che basta per far passare la palla, Schmeichel non ci può arrivare. Gol! Gol! Siamo in vantaggio! Corro ad abbracciare Mario insieme ai miei compagni. Ora comincia un’altra partita.

Mario Basler calcia la punizione che porta in vantaggio i bavaresi

Il primo tempo

Tutto è cambiato, tranne il nostro essere padroni del gioco. Dalla mia posizione vedo tutto molto bene, chiudo, imposto e rilancio. Sono ben protetto dai miei compagni, che sono pure loro in grande serata. Vedo Stefan che blocca un’iniziativa di Yorke, che viene murato poco dopo anche da Oliver su un’incursione neanche troppo pericolosa. Noi ci siamo andati vicini parecchio al raddoppio. Ci ho provato pure io: ho rubato palla a metà campo e sono andato al tiro. Del Manchester ragazzi, che dirvi? Kahn l’ho dovuto strattonare verso la fine dei primi quarantacinque minuti, per dargli una scossa. Gli inglesi non sono mai stati pericolosi, e noi continuiamo ad essere i padroni del campo. Continuo a guardarmi intorno per vedere se gli spettri del Prater fossero di nuovo in agguato.

La ripresa

Lothar Matthäus in duello con David Beckham, mentre alle loro spalle c’è Jens Jeremies

Negli spogliatoi il mister ci ha detto subito di chiudere la partita. Un altro gol, meglio altri due, e avremmo potuto amministrare la gara. Il Manchester avrebbe dovuto attaccarci stavolta, e noi avremmo trovato tutti gli spazi che avremmo voluto in contropiede. Ed è proprio così che vanno i primi minuti: agli sterili tentativi degli inglesi noi rispondiamo con azioni rapide e potenti. Jancker viene lanciato, lui fa a spallate con i difensori, da posizione defilata centra la porta ma il portiere danese si conferma in gran serata. Chiudo su Cole, anticipo Beckham, duello con Irwin in mezzo al campo. Ripartiamo ancora. Io resto in copertura e dico a Samuel di andare a raccogliere il cross di Effenberg, per poco Kuffour non trova la coordinazione giusta. Torna indietro, lo guardo per caricarlo. Siamo una squadra. I Red Devils ci provano, ed arrivano ad un passo dal beffare Kahn, ma è un fuoco di paglia. Gli inglesi mettono dentro la terza punta. È Sheringham. Non ci fa paura, noi continuiamo a fare il nostro gioco e Schmeichel deve fare uno dei suoi tanti miracoli, stavolta su Effenberg che ha tentato di scavalcarlo. Comincio ad accusare la stanchezza ma non ho intenzione di arrendermi. E nemmeno i miei compagni.

Scholl e Jancker: due tiri, due pali

È entrato solo pochi minuti prima, e guarda cosa stava per fare. Io li guardo da dietro, mentre duettano al limite dell’area. Mario danza al limite dell’area e serve Scholl, in campo al posto di Zickler. Mehmet dribbla, finta e si inventa un pallonetto bellissimo, uno di quelli che non può non entrare. Lo guardo praticamente senza respirare. La palla scende, pianissimo, senza che il portiere dello United possa fare nulla. È fatta, mi dico. Il lob di Scholl prende il palo, il pallone torna lento nelle mani di Schmeichel. Che non crede ai suoi occhi. E nemmeno io. Torno alle cattive sensazioni dell’ingresso in campo. Le scaccio. Manca sempre meno alla fine, e noi siamo in partita. Eppure ho ancora in mente quel tacco, a Vienna. Lo dimentico mentre entro in anticipo su Giggs.

Le incursioni dei Red Devils sono piene di foga, ma quasi mai pericolose. La prima parata degna di questo nome Oliver la fa su Solskjær, entrato all’ottantunesimo minuto. Un minuto prima sono uscito io, stremato ma fiero di quelli che stavamo facendo in campo Intanto si rinnova il duello tra Scholl e Schmeichel, che vola per evitare il nostro secondo gol. Che sembra davvero nell’aria. Dalla panchina assisto ad un’altra occasione pazzesca. Angolo, mischia in area, Mehmet tocca di testa, Carsten si inventa una rovesciata quasi all’interno dell’area piccola. E rompe la traversa. Adesso ho davvero gli incubi. Fortuna che manca davvero poco alla fine. Quei due maledetti di Sheringham e del norvegese sembrano davvero in gran serata. Somigliano a Madjer e Juary. Ma è meglio non pensarci. Ci guardiamo con il mister. Dobbiamo solo resistere.

Il dramma

Siamo un minuto dopo il novantesimo. In panchina praticamente non respiriamo più. C’è un angolo per lo United, e c’è pure Schmeichel in avanti. Mischia, un rinvio sbilenco di uno dei miei compagni, qualcuno in maglia rossa colpisce al volo. È Giggs, e non è da lui sbagliare quei tiri. Solo che quello che fa il gallese diventa un assist per Sheringham, che non fa nessuna fatica a correggere la traiettoria e a battere Kahn. Non credo di essermi mai sentito più arrabbiato in tutta la mia vita. Ho la vista annebbiata, la partita comunque non è ancora finita. È il minuto 91.

Pochi istanti dopo lo United ha un calcio d’angolo. Non guardo. Non guardo perché me lo sento davvero. Sento prima un boato, mi giro e vedo la corsa di Solskjær travolto dalla felicità dei suoi compagni. Vedo le capriole di Schmeichel. Collina fischia la fine. Vedo i miei compagni a terra, letteralmente. C’è Kuffour che inizia a sbattere i pugni a terra, tra disperazione e rabbia. Tento di consolare tutti quelli che riesco a vedere e ad abbracciare, poi me ne vado in un angolo del prato del Camp Nou. Mi accovaccio e guardo quel campo: è la mia ultima partecipazione alla Coppa dei Campioni. Cazzo, speravo di aver pagato i miei conti con il destino dopo il Prater.

Ole Gunnar Solskjaer ha appena completato il sorpasso dei Red Devils: la beffa per il Bayern si è materializzata

E invece è accaduto di nuovo. Ancora. Ancora tutto in pochi minuti, ancora dopo essere stati in vantaggio per tutta la gara. A Vienna è successo tutto tra il minuto 77 e il minuto 80. Qui tra il novantunesimo e il novantatreesimo. È una maledizione, è rabbia e incredulità, è disperazione. Perdere due finali in questo modo è un qualcosa che ti porti dietro per tutta la carriera, e per come è andata fatico davvero a farmene una ragione. E non me ne farò mai una ragione. Perché io sono Lothar Matthäus, uno che Maradona ha definito “Il miglior avversario che abbia avuto in tutta la mia carriera”. E sono qui, in lacrime, quasi alla fine della mia carriera, a fare i conti con fantasmi che pensavo di aver abbandonato del tutto. E invece sono qui, hanno solo cambiato forma.

Se dodici anni fa avevano i colori biancoblù e le facce di Madjer e Juary, adesso hanno i colori dell’Inferno e le facce di un vecchio pirata come Sheringham e di uno che sembra non invecchiare mai come il norvegese. Non sento più alcun rumore. Vedo solo quelle facce e quella coppa che si allontana, di nuovo e stavolta per sempre, non ci sarà un’altra occasione. E sento solo lo “stock” dei due pali che abbiamo colpito. Come un colpo di pistola. Peggio. Perché una volta che l’arbitro ha fischiato, non c’è tempo per la vendetta. Né per la risurrezione.

di Yari Riccardi

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