Cronache amaranto. Dalla Serie C alla Coppa UEFA in 5 anni
2 Aprile 2021
Quando alle coccole materne di una città senza tempo come Roma scelse l’aria sferzante del porto di Livorno aveva appena compiuto diciotto anni. Oggi Marco Amelia ne compie trentanove e siede sulla panchina di quella stessa squadra che lo lanciò nel calcio professionistico. Dalla scuola del settore giovanile giallorosso preferì giocarsi le sue carte in riva al Tirreno. Sposando la causa labronica, Amelia, legherà il suo nome con quello di una squadra che è stata capace, anche grazie alle sue parate, di risalire la china. Dai campi polverosi di provincia agli stadi più importanti d’Italia e non solo, salutandola – passando per il gol di Belgrado – da campione del mondo. Poi la tappa di Palermo, il Genoa, gli anni con il Milan e il tramonto sportivo con le divise di Perugia, Chelsea e Vicenza. Tutto senza dimenticare la maglia amaranto che ha segnato le sue fortune, e in occasione del suo compleanno vogliamo ripercorrere – attraverso i tre momenti cruciali della narrazione labronica – la splendida cavalcata che, in pochi anni, portò il Livorno dalla Serie C alla Coppa UEFA. Per fare questo dobbiamo andare con ordine, e per raccontare questa storia non possiamo fare a meno di iniziare dalle basi di un concetto, l’elemento imprescindibile con cui si alimenta il fuoco delle imprese del Livorno: la sofferenza.
Un sorriso lungo trent’anni
La sofferenza è un sentimento che, bene o male, tutti conoscono. E molte volte non si può prescindere dagli stati d’animo, dobbiamo soltanto conviverci e farseli voler bene. Come una madre fa con un figlio. Ma per abituarsi alla sofferenza, forse, bisogna avere la scorza dura, sotto cui far scorrere nelle vene sangue puramente amaranto. Si, perché ci sono realtà che hanno raggiunto traguardi e costruito la loro identità attraverso la sofferenza. E fidatevi, Livorno è maestra in tutto questo. Fa parte della sua storia, dalla più recente alla più remota, passando per quella tristemente attuale. Città atipica, terra di geni e poeti maledetti, ecclettica e irridente, che non ha niente di toscano e che calcisticamente parlando è devota soltanto alla religione amaranto. Il colore perfetto per vestire undici uomini a cui viene unicamente chiesto sudore e sacrificio, perché amaranto – non a caso – significa “che non appassisce”, ha il potere di tenere lontano l’invidia e la sventura, per questo Livorno non si piega un istante giammai. Resiste. Persino alla sofferenza. E rinasce. Lo fa a Treviso, il 28 aprile 2002, nella cornice dello stadio Omobono Tenni che, strabordante di tifosi livornesi, ospita la penultima giornata di un estenuante campionato di C1.

E lo fa, ovviamente, nella maniera più sofferta possibile. Marco Amelia è il terzo portiere, al debutto in prima squadra, certamente integrato nelle dinamiche che coinvolgono la squadra ma senza ancora essere sceso in campo. Osvaldo Jaconi, privo dell’affidabilità tra i pali di Andrea Ivan, pensa a lui per un attimo, ma è troppo esperto per farsi tradire dalle sensazioni di una trasferta delicata come quella di Treviso. Perciò sceglie saggiamente Francesco Palmieri. Le potenzialità di Amelia sono troppo importanti per rischiare di bruciarle in un match dove la posta in palio è pesante come un macigno. Il Livorno, con solo la vittoria a disposizione, e la serie B ad un passo, si gioca in novanta minuti il valore di una stagione intera. Arriva in terra veneta da capolista ma, dopo aver ampiamente dominato il torneo, si porta dietro lo strascico dell’unica sconfitta subita dallo Spezia di Mandorlini, diretta concorrente e distante ormai solo un punto. Gli amaranto si portano velocemente sull’1-0 con il gol di Giampietro Piovani, ma vengono raggiunti alla mezz’ora dal gol dell’ex di Giacomo Lorenzini. Una coltellata al cuore faceva meno male, perché lo Spezia sta vincendo e il pareggio non basta. Ma quando i minuti scorrono, le speranze si affievoliscono, e lo sconforto prende il sopravvento, ci pensa Igor Protti a sovvertire le regole non scritte, e segnare il gol più importante della sua carriera. Conducendo per mano la sua Livorno a realizzare un sogno lungo trent’anni. Tanti quanti sono gli anni che dividono i labronici dalla serie cadetta. Mancano circa tre minuti alla fine. Davide Mezzanotti alza la testa e vede lo scatto di Alteri, Igor si sgancia sulla destra e si infila nell’unico spazio disponibile. Raccoglie la sponda di testa di Alteri e fulmina Fortin segnando il gol che fa esplodere una città intera.

Impossibile spiegare a parole le emozioni che si possono provare in questi momenti. Perché anche se l’ufficialità del ritorno in B arriva una settimana dopo – nel pomeriggio del 5 maggio 2002 – la vera rinascita del Livorno comincia da quel gol, all’86’, di Igor Protti a Treviso. Capocannoniere a trentacinque anni, ancora una volta, con ventisette gol.
Da Treviso alla notte di Piacenza

“Una lunga notte sta per scomparire, all’orizzonte il nostro sol dell’avvenire”. Recitava così lo striscione profetico che il catino infuocato dell’Armando Picchi ha riservato all’impresa dei ragazzi di Jaconi. Tutta la città è ubriaca dalla pioggia di un entusiasmo contagioso, e c’è la netta sensazione che il percorso sia destinato a durare a lungo. Sembrano così lontani gli anni bui, dove ogni domenica diventava una battaglia per la conquista del pane raffermo. Non più. Nella lotta per il caviale stavolta c’è anche il Livorno. Grazie a uomini, ancor prima che calciatori – come Protti, Doga, Grauso, Vanigli, Cannarsa e tanti altri – che hanno reso possibile l’ascesa indomabile della maglia amaranto. Capaci di valorizzare, spinti dall’ardore di tutto l’ambiente, quella storica vittoria di Treviso. Perché è impossibile accontentarsi quando si ha fame. Soprattutto se lo stomaco è a digiuno da troppo tempo.

La prima stagione in cadetteria viene affidata ad un giovane allenatore bravo ed emergente, con un passato glorioso da calciatore come Roberto Donadoni, l’annata terminerà con il decimo posto. Fu una salvezza tranquilla, mai messa in discussione e che comunque riuscirà a puntare i riflettori sulle doti di Marco Amelia, alla prima esperienza da titolare, ben amalgamate da elementi di valore come Balleri, Ruotolo, Bortolazzi e Marco Negri. Con l’ennesima nota di merito per un bomber di razza come Protti, capace di riconfermarsi – a costo di essere ripetitivi – capocannoniere del torneo con ventitré gol. Con queste basi, solide e granitiche come il marmo, furono gettate le fondamenta per costruire, mattone dopo mattone, l’impresa più bella. Compiuta da Walter Mazzarri, un altro allenatore giovane e debuttante, con un attenzione ai dettagli maniacale. Anche stavolta, la dirigenza, indovina tutte le mosse costruendo una formazione competitiva sotto tutti gli aspetti. Per prima cosa viene confermato in blocco lo zoccolo duro della squadra, a cui si aggiungono nomi del calibro di Giorgio Chiellini, Luca Vigiani e Dario Passoni. Sacrificando soltanto Amelia che, successivamente, ritornerà con prepotenza a difendere la porta delle Triglie. Poi, la ciliegina sulla torta arriva con l’ingaggio di Cristiano Lucarelli.

Livornese, punta di diamante e tifoso da sempre del Livorno. Sceglie il numero 99, anno di nascita delle Brigate Autonome Livornesi, per rivendicare un passato, mai nascosto, da ultrà della Curva Nord. E con la maglia amaranto, Cristiano, realizzerà il sogno di un bambino, esteso a una città intera, lontana dalla serie A per qualcosa come 55 anni. Tanti. Troppi. Un’infinità, se si pensa a quanti appassionati fino a quel momento, hanno potuto godere della massima categoria sfogliando soltanto gli almanacchi di una volta, fantasticando su chissà quali emozioni abbia regalato il Livorno vicecampione d’Italia del 1943. Quelle stesse vibrazioni che Protti e Lucarelli – una coppia da 53 gol in due, ventiquattro il primo e ventinove il secondo – dopo un campionato impressionante per grinta, costanza e determinazione, hanno regalato il 29 maggio 2004 nella Notte di Piacenza. Gli amaranto di Mazzarri arrivano allo Stadio Garilli con il pilota automatico inserito da tempo. È una squadra consapevole dei propri mezzi e il cammino importante, seguito da vittorie pesanti e fondamentali, non ha fatto altro che confermare la forza schiacciasassi della formazione labronica. Che a Piacenza, davanti alle porte del paradiso, ha conquistato i tre punti decisivi per la matematica promozione. Dopo una prima frazione di contenimento, è nella ripresa che il Livorno chiude la partita. Prima ci pensa Ruotolo a raccogliere l’assist di un Vigiani imprendibile nelle sue cavalcate, poi è la volta di Melara a raddoppiare di testa su una punizione al bacio disegnata da Protti, e infine tocca a Lucarelli con un sinistro nell’angolino a dare il via alla festa.

Facendo letteralmente l’amore con la maglia del Livorno, stesa sul rettangolo di gioco, sotto l’incontenibile curva degli ospiti stracolma di tifosi livornesi. E poco importa se sullo scadere del match, Beghetto, infila con una bella girata il punto del 3-1. Chi se ne infischia. D’altronde, tutto il popolo amaranto ne è a conoscenza, ma è la voce sbottonata di Fabrizio Pucci che lo ricorda, e verga con emozione le parole che restano impresse nella storia: “Non c’è più tempo per morire, riprendiamoci il nostro passato”.
Gli anni in Serie A e l’avventura in Coppa UEFA

Una volta raggiunta la massima serie, la società amaranto si è subito messa in moto per cercare di mantenere la categoria, aiutando Lucarelli e Protti – all’ultima stagione da calciatore – a conquistare la salvezza. È un periodo dorato per il Livorno, che finalmente ritorna nel calcio che conta dopo 55 anni, ma il ciclo aperto dai vecchi senatori ai tempi della Serie C non è ancora esaurito. Nello spogliatoio si respira ancora un’aria positiva, c’è la percezione, abbastanza evidente, che il Livorno possa davvero scalare vette più alte. E le conferme che questo filo conduttore sia ancora in vita, non tardano ad arrivare. Nei tre anni successivi si registrano tre salvezze, all’interno di un percorso ben definito, e con un escalation di risultati impressi nella memoria di tutti gli sportivi. Prima la nona posizione che suggella l’impresa a titolo personale di Cristiano Lucarelli di vincere la classifica marcatori con ventiquattro gol, poi a ridosso del mondiale 2006, l’annata burrascosa del calcio italiano che permise al club amaranto di sedersi al sesto posto della classifica, utile per qualificarsi ai preliminari di Coppa UEFA nella stagione seguente. L’avventura in terra internazionale, la prima in assoluto di tutta la storia calcistica livornese, fa da corollario ad un’altra stagione da favola. Cristiano Lucarelli ormai è uno degli attaccanti più forti del panorama italiano e, dopo aver raccolto il testimone da un’altra bandiera indissolubile come Igor Protti, ha saputo caricarsi sulle spalle la sua squadra e la sua gente, bissando l’undicesima posizione finale con venti gol, uno in più dell’anno precedente. Ma, oltre al valore di una gratificante terza salvezza consecutiva, è il percorso europeo di quella splendida formazione che, per quanto breve, merita in assoluto di essere rivisitato. Perché imprime in calce il punto esclamativo di una società, che in passato ha davvero masticato troppa polvere. Il primo appuntamento è contro gli austriaci del Pasching, in ballo c’è il biglietto per entrare di diritto in Coppa UEFA, un’opportunità che i ragazzi di Arrigoni non si lasciano sfuggire, eliminando senza difficoltà gli avversari. Sono i gol di Tomas Danilevicius e Lucarelli a mettere una prima seria ipoteca al passaggio del turno, poi è la volta di Bakayoko a decidere il match del ritorno, iscrivendo il Livorno ai sorteggi per i gironi. E dall’urna di Nyon escono i nomi di Glasgow Rangers, Maccabi Haifa, Partizan Belgrado e Auxerre. Tutte squadre di livello, dal blasone pesante, che gli amaranto affrontano con orgoglio e a testa alta. Il debutto è all’Armando Picchi, dove gli scozzesi, in una notte zuppa d’acqua, rispondono alla doppietta in rincorsa di Lucarelli vincendo per 3-2. È una sconfitta messa in preventivo dal quale il Livorno, nella trasferta di Belgrado, si rialza nella maniera più impensabile. La stoccata di Mirosavljevic porta il Partizan in vantaggio dalla metà del primo tempo, e gli amaranto si gettano in avanti alla ricerca di un pareggio che sembra non voler arrivare mai. Sia chiaro, la doppia sconfitta metterebbe i labronici nelle condizioni di compiere un miracolo per evitare l’eliminazione, ma anche quando tutto sembra perduto si alza in cielo la capocciata di Marco Amelia, che riaccende le speranze del Livorno.

Si, proprio lui, l’estremo difensore delle Triglie – che si sgancia dalla sua porta quando ci sono ancora tre minuti più recupero da giocare – si butta nella mischia e impatta con la fronte sulla punizione di Passoni. Un gesto di lucida follia che regala a tutta Livorno un’emozione impossibile da raccontare. E gli amaranto, da quel pareggio di Belgrado, il miracolo lo compiono davvero. Perché prima intascano un altro 1-1 contro il Maccabi Haifa, con la rete di Colautti al 92’ che strozza in gola una vittoria già assaporata; poi chiudono il cerchio nella nebbia di Auxerre, con il colpo di testa di Lucarelli che spinge il Livorno alle gare ad eliminazione diretta. Ai sedicesimi di Coppa, il Livorno perde al doppio confronto, ed esce per mano di un Espanyol che poi arriverà dritto in finale. Ma non ha importanza. Perché un’avventura come questa sarà difficile da replicare, e soprattutto ripaga di tutti quei patimenti che per anni hanno soffocato la gloriosa maglia amaranto. Nata per soffrire. Nata per cadere. Nata per rinascere.
Matteo Galli

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