Privacy Policy Baresi, il numero 6

Baresi, il numero 6

8 Maggio 2020

In Italia, pensando al calcio, la parola libero ci fa pensare a tre nomi/personaggi. Un allenatore, Eugenio Fascetti il quale, contrastando il vento imponente della zona e del post-sacchismo, ha voluto imperterrito giocare con un difensore staccato rispetto ai due marcatori, prendendosi dell’antico da tutti ma riuscendo anche a costruire un bel Bari, con il suo sorrisino beffardo e bonario.

Gli altri due sono calciatori, completamente differenti uno dall’altro. Gaetano Scirea e Franco Baresi sono il prototipo del libero italiano ma niente sembra accomunarli. Il primo è classico, armonico nel gesto e nella conduzione della palla, la sua caratteristica migliore è la posizione, senza o con la palla, per interrompere l’azione avversaria o impostare la propria. Baresi invece era rapido, un fascio di nervi sempre alla massima energia, velocissimo, feroce, anche lui capace di condurre la palla ma con strappi violenti e profondi diretti verso l’area avversaria.
Due calciatori completamente diversi ma esempi massimi di un ruolo nascosto più che scomparso, perché tante delle loro letture e visioni del gioco del libero sono attuali anche adesso.

Baresi in particolare è stato il mastice che ha collegato due ere: libero classico ad inizio carriera e primo grande centrale difensivo della zona sacchiana. Eppure nessuno si aspettava che quel gruzzoletto di nervi e desideri diventasse il mito più grande della storia del Milan.
Già nel nome c’è il suo destino. Tutto lo chiamano Franco, ma è Franchino il nome all’anagrafe. Quando si affaccia al Milan diventa subito il Piscininn, marchio a fuoco del massaggiatore Mariconti. Ma l’accesso al Milan non è stato così facile. I provini furono tanti e i primi tutti negativi. Fu la testa dura di Guido Settembrino che lo aveva visto crescere nella squadra di Travagliato a insistere con i dirigenti del Milan. Settembrino è stato uno degli occhi migliori della storia del calcio italiano, scoprendo grandi talenti. In un attimo riusciva a percepire le qualità tecniche e l’intelligenza tattica di un ragazzo e bastava che gli parlasse cinque minuti per avere un’idea anche del carattere. Tirava poi una linea e aveva già bene in testa che tipo di carriera quel ragazzo avrebbe potuto fare. Così fu per Baresi, che ancora oggi lo ringrazia (insieme a tutto il mondo Milan).

Raccontare la storia e le vittorie di Baresi nel Milan da quel momento in poi è quasi un esercizio inutile. Tutti sanno che quella maglia numero 6 ha dominato il mondo. Le stagioni con i rossoneri sono state 20, dal 1977, con compagni come Egidio Calloni, Ugo Tosetto e Giorgio Biasiolo, al 1997, quando al Milan c’erano George Weah, Dejan Savicevic e Zvone Boban. Basta leggere i nomi per capire come Baresi abbia visto cambiare la sua squadra, il calcio e il mondo.
In quei 20 anni ha vinto così tanto che viene ricordato per la mano destra alzata. Dagli avversari, come per Mazzone che gli dava del pizzardone, perché con quella mano muoveva e “chiamava” al guardialinee il fuorigioco, mentre i milanisti rispondono che quella mano era sempre in alto perché stava alzando ancora un altro trofeo.

Lui però, fra tante vittorie, ricorda benissimo e con grande piacere un suo gol quasi disperso nella memoria altrui. Il Milan, coinvolto nel Totonero, scende in B nel 1980. La prima partita della ripartenza è in Coppa Italia, contro l’Avellino al Partenio. Il gol del pareggio rossonero è proprio di Baresi, che inizia da lì una risalita dallo sprofondo che gli farà toccare il cielo. Alla fine della corsa gli scudetti sono 6, le Champions League 3, le Intercontinentali 2, le Supercoppa UEFA 3, quelle italiane 4, 1 Mondiale e pure una Mitropa Cup, tanto per stare leggeri. Solo la Coppa Italia, quella in cui ha segnato il gol della rinascita milanista, non è riuscito mai a vincerla, anche se ne fu capocannoniere con 4 gol nell’edizione 1989-90.

La sua straordinarietà nell’interpretare prima il ruolo di libero e poi quello del centrale a zona è incredibile. Era sempre il centro dei movimenti difensivi e gli Invincibili, il Milan che ha vinto tutto  e più volte, aveva lui come fulcro, perché era la difesa con Tassotti, Costacurta e Maldini il fondamento di tutto. Da lì iniziava il pressing e l’accorciamento decisivo della squadra. La difesa poi era fondamentale per limitare gli avversari con il fuorigioco e lo spostamento del gioco avversario in zone del campo che non creavano problemi.

Lui era lì che dirigeva tutto questo, ma era anche l’anima della squadra, passando dalla centralità tattica a quella spirituale, che non tutti sanno sostenere. Per sintetizzare quello che Baresi riusciva a dare con l’esempio sul campo e fuori restano indelebili i 25 giorni che intercorrono tra il 49’ della partita contro la Norvegia ai Mondiali del 1994 e la finale di Pasadena contro il Brasile. La rottura del menisco avrebbe fermato chiunque ma non lui, che chiese a se stesso e alla squadra di dargli un’ultima possibilità nella partita più importante. Costacurta ricorda sempre che vedendolo allenare per quella partita che non c’era, o meglio era solo nella sua testa, tutta la squadra diede più del massimo per arrivarci. E lui lì, da titolare, nel forno del Rose Bowl giocò una partita commovente.

L’ultima partita che ha disputato è stata Milan-Cagliari il 1° giugno 1997. Da quel momento in poi nessuno indosserà più la maglia numero 6 del Milan. Un atto dovuto a Franchino Baresi, detto Franco, che non sarà mai più dimenticato.

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