Privacy Policy El Maestro Oscar Washington Tabarez

El Maestro Oscar Washington Tabarez

3 Marzo 2020

A cosa pensi quando pensi all’Uruguay? Forse a Eduardo Galeano? Forse a Garibaldi, eroe dei due mondi? O forse a Tabarez? Chissà, forse questa domanda sarà lecita e giustificata per chi, come colui che vi scrive, appartiene alla cuspide di chi è nato al confine fra Generazione X e Generazione Y. Esatto, 1983.

Gli inizi

Proprio quell’anno, a Oscar Washington Tabarez hanno affidato le redini dell’Uruguay Under 20. In occasione dei giochi panamericani tenutisi in Venezuela, uno dei tecnici più emergenti all’interno del panorama sudamericano conduce La Celeste alla conquista della medaglia d’oro, regolando il Guatemala ed il Brasile nel gironcino finale a tre. I centramericani vengono regolati per 2-1, mentre la Seleção, solita favorita dal pronostico, saggia a sue spese quanto sia coriaceo il collettivo tirato su dall’ex tecnico delle giovanili del Bella Vista, club di Montevideo.

Inevitabile che tutti gli occhi degli addetti ai lavori, all’alba del nuovo campionato, guardino verso El Maestro. Il suo, non è un soprannome casuale: il giovane Tabarez, infatti, concilia l’attività di insegnante con quella di giocatore professionista durante la domenica. In una successiva intervista ammetterà che sarà proprio l’esperienza fra i banchi a formare la sua concezione di vita: “Scelsi questa strada non senza perplessità, spinto anche dalla presenza di alcuni miei compagni. Dopo il primo contatto con i bimbi, sparirono tutti i miei dubbi. Spesso si parla di una vocazione per questo mestiere, io non l’ho avuta. È cresciuta dopo, quando mi sono trovato a insegnare”.

La scalata al calcio Uruguayano

Dopo la medaglia al collo conquistata con la nazionale giovanile, il Danubio riesce a mettere le mani sull’allenatore-professore che nella sua Montevideo. La stagione termina con il quarto posto e la proposta dei Wanderers sulla sua scrivania: dopo aver vestito i colori bianconeri nel torneo 1975, è ora di guidare i Vagabundos verso un obiettivo ben preciso. Sarà un lungo testa a testa con il Peñarol, ma non basterà portare la squadra verso uno dei migliori risultati della sua storia per aggiudicarsi il torneo. È il 1986 quando, però, Tabarez riceve il benservito da parte dei Bohemios nonostante la qualificazione in Copa Libertadores dell’anno precedente ed il quarto posto in campionato: il gruppo non metabolizza la scelta della dirigenza, tanto da conservare i contatti con l’allenatore anche dopo l’esonero e la riprova di quanto sia cementata l’atmosfera nello spogliatoio è data dalla conoscenza con Otero, Rebollo e Pan, tre pilastri del futuro staff tecnico che accompagneranno il tecnico uruguaiano durante la sua avventura che dura ancora oggi.

La Libertadores con il Peñarol

L ì’ascesa del Maestro non si ferma nonostante l’allontanamento operato dai Wanderers e nel 1987 arriva la chiamata del club più glorioso dell’Uruguay: il Peñarol. Gli Aurinegros affrontano un periodo di profonda rifondazione, dopo il repulisti figlio della profonda crisi economica vissuta dal club. Reduci da due scudetti, i dirigenti scelgono proprio Tabarez per guidare una truppa ricca di giovani alla ricerca di un punto di riferimento per crescere con i sani precetti.

È curiosa la storia narrata dall’attaccante Diego Aguirre, centravanti che passerà velocemente alla Fiorentina nel 1988, subito dopo la sua esperienza con il tecnico: “Feci un provino al Bella Vista nel 1980, all’età di quindici anni. Fra i selezionatori c’era anche Tabarez. Venni scelto insieme ad altri tre miei amici, ma dopo venti giorni lasciammo il club per tornare a giocare con la squadra del liceo. Dopo averlo ritrovato al Peñarol, parlammo immediatamente di quell’episodio. Fu incredibile: ricordava ancora i nomi dei miei tre amici che non ebbero fortuna nel mondo del calcio. Era proprio un grande il Maestro: cordiale e rispettoso, mai una parola fuori posto”.

Se in campionato le cose non andavano bene, gli uruguaiani facevano faville in Copa Libertadores. I gialloneri arrivarono dritti in finale dove li attendeva l’America Calì. Dopo la gara d’andata, terminata 2-0 per i colombiani, i ragazzi di Tabarez riuscirono a ribaltare il risultato al Centenario de Montevideo col risultato di 2-1. Il regolamento, in caso di una vittoria a testa, prevedeva la cosiddetta bella che si disputò a Santiago del Cile. Se questa, dopo tempi regolamentari e supplementari fosse terminata in pareggio, la coppa sarebbe andata ai colombiani grazie al gol realizzato in Uruguay.

E quel che accade nella terra di Salvador Allende ha un che di romanticamente incredibile. Allo scadere del centoventesimo minuto, mentre i colombiani pregustano già di alzare il trofeo al cielo, si fa spazio fra le maglie rosse della difesa proprio quel ragazzo incontrato sette anni prima durante le selezioni del Bella Vista: il diagonale di Aguirre manda in estasi gli uruguaiani e lo stesso Tabarez, consentendo agli Aurinegros di mettere in bacheca quella che, attualmente, è l’ultima Copa Libertadores conquistata. Dopo aver visto sfumare per pochissimo il sogno della Coppa Intercontinentale – conquistata dal Porto – per El Maestro giunge la chiamata da tempo desiderata: il presidente della Federcalcio dell’Uruguay gli affida la panchina nel 1988 e pazienza se nel frattempo si è dato l’ok al Deportivo Calì.

Alla guida della Celeste

La Coppa America del 1989 rappresenta il primo test per Tabarez in una Celeste piena zeppa di talenti: Francescoli, Perdomo, Ruben Sosa sono solo alcuni dei convocabili. La qualità c’è e la selecciòn giunge sino alla finalissima, durante la quale debbono inchinarsi ai padroni di casa del Brasile e ad una rete di Romario che fa esplodere i quasi 150.000 del Maracanã. Il percorso verso i Mondiali di Italia ’90 prosegue con lo storico successo a Wembley dinanzi ai padroni di casa: l’Uruguay spezza la serie positiva dei Three Lions che dura da quasi sei anni, mentre durante la manifestazione iridata si festeggia il ritorno alla vittoria in un Mundial dopo un’astinenza che dura dal 1970: il merito è di Daniel Fonseca che, al novantesimo, abbatte il fortino della Corea del Sud e determina la qualificazione dei suoi compagni di squadra al turno successivo. L’incontro agli ottavi contro la schiacciasassi Italia determina l’eliminazione e il primo addio di Tabarez. El Maestro lascia in eredità una nazionale trasformata: prima erano considerati una squadra di picchiatori, adesso tutto il mondo conosce quanto sia di qualità la scuola di Montevideo.

Dalla Bombonera al Sant’Elia

È il 1991 quando il Boca Juniors bussa alla sua porta. Non è un bel periodo per gli Xeneizes, a secco di vittorie da ormai più di dieci anni. Ci vuole la sua mano per tornare al successo e festeggiare il torneo d’Apertura del 1992. Tuttavia, l’obiettivo rimane quello dello sbarco in Europa. Lì, dove il calcio conta davvero: «Dopo aver vinto il titolo con il Boca Juniors ho ricevuto moltissime richieste dal Sud America ma le ho rifiutate perché mi ero messo in testa di venire in Europa. Sono stato fermo un anno, a dicembre ho conosciuto Cellino in spiaggia. Abbiamo parlato tanto di calcio e oggi il mio sogno finalmente si avvera». Ha l’aria del filosofo fuori dagli schemi, Tabarez. E tutti guardano a lui ed al suo calcio con grande curiosità. Lì, dove ha avuto grandi predecessori in campo come Francescoli, Fonseca ed Herrera, gli uruguayani ritrovano un angolo di patria e rendono al meglio. Chiunque l’ha incontrato, ha apprezzato la sua franchezza e la saldezza del pensiero. In Sardegna non si fa certo diversamente e rimane celebre una delle sue dichiarazioni: “Quando facciamo buoni risultati mi dite che siamo una squadra d’attacco, ma non è vero. Il calcio è attacco e difesa, e difendere non è una mala parola. Difendersi è un’arte, se lo si fa senza cattiveria”.

In rossoblù non andrà oltre due piazzamenti a metà classifica, ma le sue idee rivoluzionarie e controcorrente attecchiscono negli animi ed i tifosi si identificano sempre di più in lui e nel suo credo: un modulo che prevede tre difensori centrali, due più avanzati, tre giocatori d’attacco alternati a due interdittori a centrocampo per legare i reparti. 5-2-3? Impossibile rinchiudersi nei soliti cliché per uno come lui: “Io non ho giocato in squadre importanti e non ho avuto grandi allenatori da cui imparare ma sono uno studioso di tattica e ho due riferimenti: Ricardo De Leon e Bambino Viera. Loro hanno introdotto nel calcio moderno quella zona aggressiva che adesso fa Zeman. I migliori non sono quelli che vincono ma quelli che fanno una cosa per primi. Come Sacchi con il suo Milan, un punto ineludibile della storia del calcio italiano” dichiarerà all’epoca della sua permanenza al Cagliari. Qualcuno definì il suo calcio filosofica come un compendio di zona e utopia. Tanto bastò al Milan di Berlusconi per affidargli la complicata gestione del dopo-Capello.

Caduta e resurrezione

Oscar Washington Tabarez sbarcò a Milanello nell’estate del 1996 con il compito non facile di difendere lo Scudetto dagli attacchi di Juventus e Parma, oltreché di portare il Milan più avanti possibile in Europa dopo l’eliminazione patita dal Bordeaux l’anno precedente in Coppa UEFA. A dargli il benvenuto in rossonero, però, ci pensa Gabriel Omar Batistuta con la sberla su punizione dedicata alla moglie Irina e la Supercoppa che prende la strada di Firenze. Si ritrova alla guida di un gruppo soggetto ad una metamorfosi kafkiana, in cui giungono molti giovani stranieri che deludono le attese: Bogarde, Dugarry e Reiziger su tutti. L’avvio è stentato e il suo Milan non trova il ritmo. L’aria si fa pesante sempre di più finché la rovesciata di Luiso allo stadio Garilli di Piacenza manda in frantumi la pazienza dello staff societario. Vogliono mandarlo via, ma è lui stesso ad anticiparli sul tempo, rassegnando le dimissioni e dando l’addio a un pubblico con il quale non è mai scoccata la scintilla. Un’esperienza in Spagna sulla panchina del Real Oviedo l’anno successivo terminata con la retrocessione ed un fugace ritorno durato lo spazio di quattro giornate rappresentano un segnale inequivocabile. È tempo di tornare oltreoceano, forse è lì il posto più adatto a lui. Si contano altre due stagioni senza particolari sussulti alla guida di due argentine: il Velez Sarsfield prima e il ritorno al Boca Juniors nel 2001.

Passano addirittura quattro anni senza che nessun club si faccia vivo. Che ormai sia fuori dai giochi? Nel frattempo, l’Uruguay ha fallito la qualificazione ai Mondiali di Germania 2006 dopo lo spareggio ai rigori con l’Australia. Inevitabile che ne faccia le spese il commissario tecnico, Jorge Fossati, il quale viene immediatamente sollevato dopo l’ennesimo penalty parato da Mark Schwarzer. Chi chiamare? El Maestro è libero e visto che c’è da rifondare, viene chiamato colui il quale ha sempre dimostrato di saper tirar fuori il meglio da chi è costretto a lottare oltre le sue possibilità contro forze superiori. Nasce così il percorso di ricrescita certosino a cui Oscar Washington Tabarez sottopone La Celeste. Prima gli uomini, poi i calciatori: “Il talento non basta, serve riuscire a dare un significato a ciò che stai facendo” ha affermato in una recente intervista alla Gazzetta dello Sport.

I record con l’Uruguay

A sedici anni dalla prima chiamata, è tornato sulla panchina del “suo” Uruguay e da allora non l’ha più lasciata, accumulando record su record. Tabarez è il commissario tecnico con più partite in panchina durante le qualificazioni della zona sudamericana alla Coppa del Mondo: sono 47 e tutte con una sola nazionale. In Copa America è il recordman per il numero di partecipazioni (sei edizioni) oltreché per numero di presenze in panchina (trenta). Insieme al collega Joachim Löw, è il commissario tecnico in carica da più tempo: allena la sua nazionale, infatti, dal 2006 precedendo il tedesco di qualche mese, visto che Tabarez accettò l’incarico nel mese di marzo, mentre Löw prese il posto di Klinsmann dopo il Mondiale. Infine, è il commissario tecnico che a livello mondiale ha guidato una nazionale per il maggior numero di partite, record precedentemente appartenuto al tedesco Sepp Herberger.

Oscar Tabarez Uruguay

Tutto ciò mentre Oscar ha lottato, e lotta tuttora, contro un morbo che lo sta debilitando man mano che passano i giorni. Chi non ha ancora in mente l’esultanza dei suoi giocatori durante la recente Coppa del Mondo in Russia, quando si alzò in piedi, lasciando il bastone per correre verso di loro ed abbracciarli? Lo hanno sempre seguito: in ogni squadra e in ogni modo. Un esempio a tuttotondo di un calcio dignitoso e decoroso, sempre più difficile da ritrovare in personaggi carismatici come lui. Il tempo passa, la malattia pure, ma lui è lì: ad illustrare, suggerire, catechizzare, rimproverare, condividere e festeggiare. Come fanno tutti i grandi professori. Nessuno esente. Soprattutto quando sei El Maestro.

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