Gianfraco Zola – Il Favorito di Sua Maestà
5 Luglio 2020
Ai romani non era andata giù, questo è certo. Strappare a Cartagine due domini nel mezzo del Mediterraneo e poi ritrovarsi bande di isolani ribelli che non volevano saperne del mos maiorum: senz’altro doveva trattarsi di uno scherzo della sorte, con buona pace delle profezie augurali. Credo che fossero soprattutto contrariati per questo. C’era qualcosa di sbagliato in quella terra; qualcosa che cresceva tra le distese di noci, alle pendici della montagna bianca. Impossibile da dominare. Avevano persino dovuto dargli un nome, Barbaria, per distinguerla dal resto dell’isola docile e leale alla repubblica. Al continente.
Immagino che Gianfranco Zola conosca bene questa storia, chissà quante volte l’avrà sentita raccontare. Riesco quasi a vederlo mentre abbassa un po’ lo sguardo e ci pensa su con un mezzo sorriso, come un bambino che sta diventando grande. In fondo anche la statura – un metro e sessantotto – è poco più che quella.
Gianfranco è uno che parla poco, bastano i suoi occhi gentili con tutti. Col pallone tra i piedi fa quello che vuole, è vero, ma in campo il suo pensiero successivo è sempre per un compagno, anche davanti al portiere. La verità, se lo sente dentro, è che non ci si può divertire da soli. Non lo dice apertamente, non riesce. Lui quell’isola la ama sul serio. I romani però non ci sono più ed è inutile far finta di nulla: metà del suo cuore barbaro desidera il continente, l’Italia, l’azzurro.
Non so se Gianfranco sarebbe d’accordo, ma credo che tutta la sua vita, per lo meno quella sportiva, potrebbe essere descritta come la ricerca di un’esatta tonalità d’azzurro. L’azzurro non è un colore facile: rischia sempre d’esser falso, bugiardo. È stato così con il celeste, e Franco ne ha sofferto, nonostante l’investitura di Diego. L’aggiunta successiva di giallo, per un po’, ha portato qualche sollievo. Anche qualche coppa. Ma non poteva durare, perché questa è una storia d’azzurro. Di spietato azzurro. Specialmente l’azzurro vero, quello di tutti, allora firmato IP. Arrivato tardi per uno come lui e quasi controvoglia; del tutto insensibile al suo sguardo timido e alla metà più gonfia del suo cuore. Non è bastato nemmeno il goal a Wembley. Qui da noi non si può amare davvero un barbaro.

Magari Gianfranco non la pensa così, ma crediamo che quella notte inglese sia stata comunque un segno. Amaro forse, eppure evidente. A cui è seguito tutto il resto. L’azzurro che diventa blu, un’altra isola, Londra, Sua Maestà. E un po’ di pace, finalmente. Un po’ d’amore – in realtà moltissimo – con quel maledetto colore addosso.
Per chi era quel tacco volante, Gianfranco? Di’ la verità. La squadra, la famiglia, sì, va bene. Ma dilla tutta: era anche For God and the Empire, come recita il motto che avresti imparato più avanti. Un dono da parte del favorito di Elisabetta. E non dirmi che non conosci Walter Raleigh, tanto non ci credo.
C’è da dire che la regina si è sdebitata con te, caro Gianfranco. Mi ricordo quant’eri emozionato. Eri tornato da poco sulla tua isola perché volevi passare gli ultimi anni col pallone in mezzo alla tua gente. Sfidare l’Italia per l’ultima volta. Avevi trentotto anni e sembravi molto tranquillo. Si vedeva che ti divertivi: la maturità ti portava a trovare qualcosa di buono anche qui da noi.
È stato dopo le prime giornate, tra ottobre e novembre, che sei stato chiamato a Roma. Ironia della sorte, forse. Ma non era l’Italia che ti voleva. Era ancora la regina, la tua regina. Membro dell’Eccellentissimo Ordine dell’Impero Britannico. Non ti aveva dimenticato. Hai abbassato lo sguardo e ci hai pensato un po’ su, mentre ti consegnavano la stella. Siamo sicuri che non hai detto tutto quel che avresti voluto. C’erano il tuo mezzo sorriso e quegli occhi accesi. Tanto bastava.
Non sappiamo dire se sia stata una piccola vendetta, non l’hai mai confessato. Immaginiamo comunque che tu l’avresti chiamata, più propriamente, disamistade. «Ché la disamistade si oppone alla nostra sventura; questa corsa del tempo a sparigliare destini e fortuna».

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