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I 15 giocatori non in attività più forti passati dall’Ajax alla Serie A

1 Aprile 2021

5. Nwankwo KANU

Chiudendo gli occhi possiamo ancora ammirare le Super Aquile che dominavano incontrastate le Olimpiadi di Atlanta 1996. Kanu era la punta di diamante di quella meravigliosa Nazionale e soprattutto uno dei giovani di Amsterdam più promettenti sulla scena europea. Le straordinarie prestazioni coi lancieri e alle Olimpiadi sono il biglietto da visita per l’Inter, che lo tessera al termine della fantastica rassegna internazionale. Quando sembra tuttavia all’apice dell’esplosione, un destino beffardo ne interrompe l’ascesa. Kanu deve infatti operarsi per una grave malfunzione cardiaca, un intervento che gli permetterà di indossare la maglia nerazzurra solo undici volte. Dopo un’operazione così, è davvero difficile tornare ai vecchi livelli. Firma con l’Arsenal nel tentativo di ritornare il ragazzo terribile che aveva impressionato tutti, ma l’aquila devastante e impetuosa purtroppo non volerà più.

4. Edgar DAVIDS

Pochi giocatori possono vantare di aver giocato per le tre grandi d’Italia: Juventus, Milan e Inter. Uno di questi è il Pitbull più famoso del mondo del calcio, dall’indole agonistica rabbiosa e irascibile. Davids ringhiava contro tutto e tutti, era un guerriero abituato a lottare e a non arrendersi mai, nemmeno dopo che la frattura di tibia e perone gli compromette drasticamente la prima e unica stagione rossonera. Ciò che non uccide fortifica eccome, perché nei primi anni alla Juventus Davids – primo olandese della storia bianconera – entra di prepotenza nella cerchia dei migliori centrocampisti del panorama europeo. Non sono capaci di fermarne l’ascesa né un glaucoma agli occhi, che lo costringe a indossare i famosi occhialini, né la giustizia sportiva, che lo accusa per un presunto caso di doping. Problemi che avrebbero fiaccato e demoralizzato quasi tutti, ma certo non il Pitbull, che continua a ringhiare imperterrito su tutti i campi del continente. Barcellona, Inter, Tottenham e ancora Ajax sono le ultime tappe di una carriera in cui la foga agonistica sarà un po’ meno furiosa, ma la personalità da combattente esisterà e resisterà sempre.

3. Dennis BERGKAMP

The Non-Flying Dutchman, l’Olandese non volante. Così Bergkamp era soprannominato in patria, pare perché avesse paura di volare. Sembra strano, perché in campo volava eccome. Senza van Basten e Stoichkov, nel 1992 avrebbe vinto il Pallone d’Oro. Stessa cosa l’anno dopo, se non ci fosse stato il Divin Codino. Eh già, perché quelli sono gli anni in cui Dennis è seriamente devastante, gli anni, per intenderci, in cui si laurea capocannoniere dell’Eredivisie per tre volte consecutive. La particolarità di Bergkamp sta nel fatto che i suoi goal sono veramente di una bellezza indescrivibile, di una purezza estetica unica e di una tecnica sublime. Nel realizzare un goal Dennis arrivava quasi a piegare la fisica. Non si spiegherebbe altrimenti la rete al Newcastle United nel 2002 quando, spalle alla porta, con il sinistro manda la palla alla sua destra ruotando però il corpo nel senso opposto. Ancora oggi, rivedendolo, sembra un gesto impossibile. Non per Bergkamp, che senza il signore al primo posto, duellerebbe con van Nistelrooy come miglior centravanti olandese dell’era post-Cruijff.

2. Clarence SEEDORF

Signore e signori, ecco a voi l’unico giocatore della storia del calcio a vincere la Champions League con tre squadre diverse: Ajax, Real Madrid e Milan. Dire due parole su Seedorf è quasi un’offesa a quello che è stato, al suo talento incommensurabile, alla sua tecnica cristallina e alla sua potenza esplosiva. È impossibile descrivere in breve il Professore, un giocatore dall’intelligenza calcistica fuori dal comune, che orchestrava squadre leggendarie come l’Ajax pigliatutto degli anni ’90 e il Milan di Ancelotti. Seedorf riusciva ad essere contemporaneamente un leader carismatico, un indomito combattente e l’angelo sublime del centrocampo. Un grazie di cuore va al presidente sampdoriano Mantovani che lo ha portato in Italia dopo anni straordinari in Olanda. Un anno nella Genova blucerchiata gli basta e avanza per essere chiamato dal Real Madrid, dove trascorre tre anni ricchi di successi. L’Italia però gli è entrata nel cuore ed è da noi che il campione olandese decide di costruire la sua carriera e il suo futuro. Arriva all’Inter durante a cavallo del millennio e da Milano non si scolla più, ascendendo all’élite dei miglior giocatori in circolazione. Un vecchio detto sostiene che gli affari di mercato tra cugini non devono concludersi; chiedere conferma ai nerazzurri, che commettono il grave errore di cederlo ai parenti rossoneri. Al Milan, Seedorf trascorre dieci anni ricchi di successi straordinari, confermandosi, a detta di tutti, come il miglior centrocampista olandese del ventennio.

1. Marco VAN BASTEN

Raccontate ai vostri figli e nipoti chi era Marco van Basten. Un ragazzo che, se non fosse stato per quella maledetta caviglia, probabilmente avrebbe risolto il dibattito sul centravanti più forte degli ultimi cinquanta anni. Come si può raccontare in poche righe del Cigno di Utrecht? Un ragazzo dal talento inestimabile che spicca il volo tra i professionisti a venti anni mettendo a segno ventinove – ventinove! – goal alla seconda stagione in biancorosso. In totale coi lancieri sono 152 in 172 gettoni, numeri impressionanti che testimoniano l’efficacia della macchina da goal costruita nella solita instancabile fucina Ajax. Ma van Basten non era solo un automa preposto al goal: era arte applicata al calcio, un esteta del pallone amato da ogni tifoso. Non a caso è l’unico ad aver vinto tre volte il Pallone d’Oro, alla stregua di altri due mostri sacri – Le Roi e il mentore Cruijff – e prima ovviamente dell’ascesa di Messi e Ronaldo. I primi due addirittura consecutivi nel 1988 e 1989, nel periodo in cui metteva in ginocchio l’Europa con la maglia rossonera insieme ai fratelli Gullit e Rijkaard. Probabilmente la luce splendente di puro talento che emanava in campo alla lunga sarebbe stata troppo accecante. van Basten in quegli anni si avvicinava in maniera eccessiva alla definizione di “centravanti perfetto” e forse per questo un fato crudele ha stabilito di fermarne l’ascesa a soli ventotto anni, dopo circa 400 partite e ben 300 reti. Pensate cosa sarebbe stato se ne avesse giocati altri dieci. Come Icaro, che si avvicinò troppo al sole, così il Cigno di Utrecht forse era troppo vicino ad una luce divina che l’umano calciatore non può ancora attingere. «Correvo, perché non volevo far vedere che zoppicavo. Avevo un dolore pazzesco a quella caviglia maledetta. Ero disperato». Lo eravamo tutti, caro Marco. Lo siamo tuttora. Ma grazie di cuore per la bellezza che ci hai regalato in soli otto anni di carriera.

di Luca Macrì