Privacy Policy Johan Cruijff, il profeta

Johan Cruijff, il profeta

25 Aprile 2020

Chi l’avrebbe mai detto che la prima vera rivoluzione nel mondo del calcio nasca dalla testa, dal cuore e dai piedi di un gracile ragazzetto di Betondorp. È Johan Cruijff ed è il figlio di un fruttivendolo della periferia di Amsterdam. Alla luce della sua immensa carriera, Johan rappresenta quella classe di uomini dotati di una intelligenza rara, quelli che hanno vissuto il loro presente con gli occhi ben aperti sul futuro. Johan non era un uomo comune.

Era diverso da tutti gli altri, come diversa era la sua mentalità. Non aveva titoli di studio, come amava raccontare, ma lavorava sull’esperienza che limava attraverso la straordinaria capacità di acuto osservatore qual era. Riusciva a vedere oltre il semplice gioco del pallone, nonostante ne sposi fin da subito la filosofia del divertimento. Guardava oltre perché sapeva cogliere dal calcio le grandi lezioni della vita, applicando il medesimo processo anche a parti inverse. Era astuto e mai banale, rivoluzionario e innovatore, geniale ed imprevedibile. Un fuoriclasse puro, di quelli nati per fare la differenza.

La sua storia inizia proprio sulle strade di Betondorp – letteralmente Villaggio di cemento – dove Johan, fin da bambino, non si separa mai da quel pallone, affinando la tecnica – già sopraffina – tra gli angoli dei marciapiedi e le piazzette del quartiere. Studia, gioca e lavora nel negozio del padre, grazie al quale si avvicina al mondo dell’Ajax – la sua squadra del cuore la cui sede è a due passi dalla casa natia – come addetto alla consegna delle mele. Johan è stregato da quei colori e dagli spalti dello stadio De Meer distante poche centinaia di metri e dal profumo dell’erba sul quale sogna un giorno di giocare. Come quei calciatori che ogni giorno ammira.

A dieci anni entra nel settore giovanile dei Lancieri e, dopo soli due anni, è costretto a diventare rapidamente già uomo: un infarto si porta via suo padre. La famiglia non è certamente benestante e la mamma del piccolo folletto con il ciuffo ribelle fu assunta dalla stessa società per occuparsi della pulizia degli spogliatoi. Nasce da qui il rispetto, il senso di dovere e di responsabilità che Johan coltiva per tutta l’esistenza, fortificando in maniera indissolubile il legame con i Lancieri, ai quali deve praticamente tutto. Tutti gli insegnamenti che non riceve dalla scuola li impara lì, sul campo dell’Ajax, a partire dall’educazione sportiva.

Durante la scalata al professionismo, nel settore giovanile, si distingue presto per le sue doti tecniche ed atletiche fuori dall’ordinario. Vic Buckingham è l’allenatore che ha svezzato la crescita del futuro campione, accompagnandolo fino all’esordio in prima squadra. Ma è con l’arrivo di Rinus Michels che prendono forma le basi di quella che sarà la vera rivoluzione apportata da Cruijff. Con Michels il dialogo è diretto, spigoloso ma costruttivo. Si intendono e parlano la stessa lingua in materia calcistica, seppur Rinus sia un monumento all’empatia. Stessi obiettivi e medesima voglia di migliorarsi per portare l’Ajax – una società che lotta per non retrocedere – tra le grandi firme. Nascono così i primi germogli di quel che, poco dopo, sboccerà in tutto il suo travolgente pragmatismo.

Nasce, in definitiva, quello che verrà ricordato da tutti come Totaalvoetbal. Un sistema di gioco in cui non esistono ruoli fissi, ma una rotazione intelligente degli interpreti, dove gli spostamenti sono coperti in maniera efficace dal compagno giunto in aiuto. Sono automatismi oliati che consentono alla squadra di mantenere compattezza e fluidità di manovra, volti a migliorare la giocata individuale e a completare il bagaglio tecnico di ogni singolo individuo. Per mantenere l’ordine tattico in questa nuova filosofia di gioco è fondamentale la scientifica occupazione degli spazi, funzionali alla creazione di varchi utili per presentarsi dinanzi al portiere avversario: Cruijff spadroneggia in questo ruolo veste i panni da direttore d’orchestra con disarmante naturalezza. Eccola qui la rivoluzione. Non serve correre più degli altri. Serve giocare con il cervello prima ancora che con i piedi, per correre meglio. E i risultati non tardano ad arrivare.

Scongiurata la retrocessione, nella sua prima stagione in Eredivisie, l’anno successivo i frutti del lavoro di Michels si concretizzano con il titolo di campione d’Olanda. Il primo di una lunga serie di trofei che iscrivono di diritto il nome dell’Ajax tra le più grandi d’Europa. La superiorità dimostrata in campo diventa una legge non scritta di quegli anni. Johan Cruijff dirige ed incanta. È atipico, senza dubbio, ma con tutti i dogmi del vero campione: controllo di palla, dribbling secco e scatti fulminanti che si sommano ai cambi improvvisi di passo, ritmo e direzione. Destro o sinistro non fa differenza, così come il colpo di testa: gioca per la squadra e segna tanto, con la concretezza degna dei migliori bomber. E fu così che dal primo trionfo del 1965-66 ne seguirono altri due consecutivi, più altri tre a fasi alterne fino al 1973 a cui vanno aggiunti gli ultimi due conquistati durante la sua seconda esperienza all’Ajax. Un dominio assoluto destinato a crescere. Talmente devastante che è impossibile d’arginare all’interno del territorio nazionale. Arrivano, dunque, quasi naturalmente le conquiste internazionali.

Ai campionati e alle coppe olandesi si sommano le tre Coppe dei Campioni consecutive – dal 1970 al 1973 – la Supercoppa UEFA e quella Intercontinentale. In ogni occasione Johan Cruijff si rivela artefice protagonista principale di tali successi, venendo premiato per tre volte con il Pallone d’Oro. Con l’addio di Rinus Michels, avvenuto nel 1971, non si ruppe la meravigliosa macchina olandese che tanto fece incantare il mondo del calcio. Almeno non nell’immediato. Lo stesso Cruijff seppe mantenere un certo equilibrio di squadra e di spogliatoio.

I meccanismi ormai ben definiti hanno concesso al biennio vincente del post-Michels, in qualche modo una “vita di rendita”. Ma il rapporto con Kovacs e Knobel, i successori in panchina, è minato da un cambio di prospettiva che tolse quell’aura ferrea di rigore, di disciplina ed organizzazione che era alla base della formula tattica messa in pratica nei nove anni precedenti. Fu così che Johan, per la prima volta, iniziò a vacillare. La fiducia che, da capitano, riteneva di doversi ascrivere nei confronti dei compagni venne meno e una volta persa la fascia a favore di Keizer, decise che era giunta l’ora di cambiare.

A rendere più dolce il saluto dall’Ajax ci pensò sempre Michels che, passato nel frattempo al Barcellona, lo scelse per aprire un nuovo ciclo vincente in catalogna. Johan Cruijff si trasferì in Spagna, coinvolto dall’entusiasmo della nuova realtà e dall’affetto che il popolo blaugrana gli ha da subito conferito. Per un cavillo burocratico debutta nella Liga all’ottava giornata, con il Barça penultimo in classifica, ma alle rivoluzioni, il profeta, ci è abituato. Segna una doppietta all’esordio e non si ferma più, conducendo il popolo del Camp Nou alla vittoria del campionato che mancava da quattordici anni. Ma la lunga scia dei trofei conquistati durante l’egemonia olandese è destinata a rimanere tale e la mentalità vincente del calcio totale venne trasferita anche in nazionale.

Durante i mondiali del 1974 sono i Paesi Bassi, guidati ancora una volta da Michels, a far sognare tutti gli appassionati con il loro gioco spumeggiante. Meriterebbero il titolo ma perdono clamorosamente in finale, contro la Germania Ovest di Gerd Müller, uscendo comunque a testa alta. Con l’appellativo di vincitori morali che tutt’oggi viene ricordato per la portata dell’impresa. La delusione della sconfitta viene assorbita velocemente da Cruijff, che nei cinque anni di permanenza in Spagna si ripete, ma solo nella sua ultima stagione vincendo la Coppa de Re. Chiudendo il ciclo catalano così come lo aveva aperto: con un trofeo. Johan ha trentuno anni. Sente di aver dato tutto e medita il ritiro. Michels ha lasciato Barcellona ed è sostituito da Weisweiler con cui non instaura un rapporto costruttivo e Johan vacilla sul serio. Ma i nuovi stimoli arrivano presto.

La chiamata oltreoceano della NASL – la Lega Professionistica Americana – lo convince a tornare sui suoi passi. Per Cruijff, l’occasione con i Los Angeles Aztecs e i Washington Diplomats l’anno successivo, non sarà mai vista come un passo indietro nella carriera, ma come la possibilità di accrescere il proprio bagaglio culturale, di apprezzare una nuova lingua e una nuova corrente calcistica da rilanciare.

Una volta terminata l’esperienza negli Stati Uniti è pronto a ripartire per l’Europa e firma per il Levante con cui gioca una manciata di partite nella seconda divisione spagnola. Alla parentesi di Valencia ne segue un’altra, ancora più breve, con la maglia del Milan che dura il tempo di un’apparizione. In Italia si disputa la Coppa Super Clubs, comunemente chiamato il Mundialito. Un torneo al quale prendevano parte le squadre con almeno un Coppa Intercontinentale in bacheca. La maglia rossonera rimase soltanto un sogno, mentre invece si concretizzò, otto anni dopo, il ritorno all’Ajax.

Johan è agli sgoccioli di una carriera irripetibile, ma vivrà di nuovo da protagonista i suoi ultimi tre anni da calciatore. Con i lancieri vince due campionati su due e una coppa KNVB, partecipando con entusiasmo e giocando, ovviamente, per gli altri. Senza alcuna polemica sull’aspetto tecnico, atletico o tattico. Semplicemente a disposizione della sua gente. Sono di diversa opinione, invece, i dirigenti che trovano difficoltà sul piano economico. Per loro Cruijff è un atleta vecchio, lontano parente del campione tanto ammirato e che guadagna troppo per la posizione mantenuta nel club. Dalla parte opposta c’è la parola di Johan, affatto allettato di abbracciare il pensiero dirigenziale, che si sente quasi offeso e scaricato dalle eminenze grigie dei Godenzonen.

L’affetto per l’Ajax resterà immutato, ma decide comunque di firmare per un’ultima stagione con i rivali del Feyenoord, dove giocando praticamente da libero, vince campionato e coppa. Johan Cruijff lascia da campione assoluto, da profeta in campo di quella che è stata la più grande rivoluzione calcistica di tutti i tempi. Occhio scaltro e capello fino. Veloce come una gazzella e imprevedibile come le schegge impazzite. «Il calcio si gioca con il cervello». Ce lo hai insegnato tu, Johan. Testa alta, palla incollata ai piedi e scatto improvviso. Tre tempi di gioco avanti a tutti, così in campo come nella vita.

di Matteo Galli

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