Oscar Tabarez: maestro per sempre
3 Marzo 2021
Definire Oscar Washington Tabarez un uomo di calcio non può che risultare riduttivo. Il commissario tecnico della Nazionale uruguaiana è molto di più: filosofo, sociologo e rivoluzionario. Attento osservatore della vita, degli aspetti umani, delle dinamiche sociali, sportive ed umanistiche. Un gentiluomo nato a Montevideo nel 1947 e prestato al calcio per volere di qualche divinità che vuole molto bene a questo sport.
Da ragazzo alterna gli studi universitari e la didattica alle partite nei campi polverosi e degradati di Montevideo, dispensando – fin da giovanissimo – consigli utili e dimostrando un innato carisma, mascherato da uno stile elegante, pacato e riflessivo. Il titolo di Maestro, che tutt’ora perdura, è immediato e naturale per un uomo che decide di fare della crescita del calcio e dei suoi valori l’obiettivo di una vita. Da calciatore vive una carriera da difensore centrale di buon livello, ma è da allenatore che Oscar potrà trasmettere le sue innovative idee, in un parallelismo continuo e costante tra sociologia e sport, tra politica e valori sportivi. Mai ha nascosto di appartenere ideologicamente alla coalizione progressista uruguaiana, dalla parte del popolo e della sua gente, che tra gli anni ’70 e ’80 ha vissuto e subito gli scempi di una dittatura militare tra le più violente della storia.
Il Maestro, nel 1987, guida il Peñarol alla conquista della Copa Libertadores (ultimo trofeo internazionale del club), prima di approdare sulla panchina della Celeste, dopo una breve esperienza in Colombia. Con Tabarez in panchina, la Nazionale uruguagia, capitanata dal Principe Francescoli, esprime un calcio appassionante ed intelligente, con cui ben figura ai Mondiali italiani del 1990. Il tecnico conferma poi la sua caratura internazionale, vincendo l’Apertura del 1992 con il Boca Juniors e guadagnandosi la chiamata in Europa: prima al Cagliari del presidente Cellino e poi al glorioso Milan di Silvio Berlusconi. La signorilità e l’educazione del Maestro si scontrano in Italia con l’ossessione per i risultati ed una incombente pressione che ben presto intaccano la serenità del tecnico e del suo staff.
Le sue idee tattiche di ‘trequartista’, ‘regista’ e ‘centrocampo a rombo’ sono ancora troppo acerbe per un campionato che predilige (siamo nel 1996) un calcio concreto e schematico, in cui i giocatori più talentuosi sono spesso costretti ad adattarsi in ruoli a loro non congeniali. E se con il Cagliari il nono posto finale non è da considerarsi un disastro, non si può dire lo stesso dei risultati ottenuti con il Milan, che dopo sole undici giornate lo convincono a rassegnare le dimissioni e l’addio al calcio italiano. Avanguardista e romantico: non c’è spazio per un allenatore del genere nell’Italia degli anni ’90.
Il Maestro rappresenta però una risorsa per tutto il calcio sudamericano ed in particolare per il movimento sportivo della sua Nazione, che vede in lui la possibilità di un ritorno ai gloriosi fasti di un tempo (mancava un risultato degno di nota dal quarto posto ai Mondiali messicani del 1970).
Nel 2006 Tabarez viene così nominato, per la seconda volta, commissario tecnico della Celeste, ma questa volta con un compito più ampio: il Maestro coordina e segue tutto il sistema, dalle selezioni giovanili alla Nazionale maggiore, con tanto di investimenti nel recupero dei giovani più problematici e di infrastrutture adeguate, per garantire una crescita costante alle nuove leve ed una distrazione dai pericoli della strada. I risultati sono costanti e, talvolta, perfino sorprendenti: un quarto posto ai Mondiali sudafricani del 2010 e la storica vittoria in Copa America nel 2011 sono i fiori all’occhiello di un progetto sportivo in crescita, che vede nel Maestro il proprio pilastro.
Visionario e saggio, proprio come quando per le strade di Montevideo guidava i giovani verso una vita di sport, valori e conoscenza. E poco importa se negli ultimi anni ci siamo dovuti abituare a vederlo seguire gli allenamenti della Celeste sul carrito, a causa della grave neuropatia che lo ha colpito, la sindrome di Guillain-Barrè. Non è certo quel carrito ad intaccare lo stile ed il carisma del settantaquattrenne allenatore, che ancora con orgoglio continua a guidare la sua Nazionale, con l’obiettivo di un nuovo Mondiale da giocare. Ancora sul pezzo, ancora con nuove idee, ancora con lo stile di sempre. E perché dovremmo sorprenderci? Lui è il Maestro.
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«L’Utopia è all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. E quindi a cosa serve l’Utopia? Serve proprio a questo: a camminare». (Eduardo Galeano)
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