Privacy Policy Dalla A alla Z, abbiamo scelto un allenatore di provincia per ogni lettera dell'alfabeto

Dalla A alla Z, abbiamo scelto un allenatore di provincia per ogni lettera dell’alfabeto

2 Maggio 2020

Capitani di ventura. Al soldo del dio pallone e al comando di truppe di guerrieri in scarpette e calzoncini provenienti da tutte le nazioni. Con un unico obiettivo: sudare e lavorare per gettare il cuore oltre l’ostacolo e sovvertire il pronostico, trasmettendo non solo conoscenza e l’uso dei mezzi tecnici, ma il proprio credo e la propria filosofia. Li conosciamo come allenatori “di provincia”, ma in realtà sono leader e condottieri, autori di grandi, piccoli capolavori sportivi. Qualcuno di loro ha detto basta, qualcun altro non c’è più. Qualcuno è ancora in pista. Lì, a mangiar calcio. Rigorosamente in tuta. Perché, per i nostri eroi, la giacca e la cravatta non sono abiti da battaglia.

Vogliamo celebrarlo così il professor Scoglio. Oggi avrebbe compiuto 79 anni. Un personaggio che è entrato nell’immaginario degli sportivi italiani come uno dei più genuini latori di bel calcio. Un maestro di vita: «Ci sono ventuno modi per battere un calcio d’angolo e dodici per battere un calcio di punizione» teorizzava. D’altronde era un laureato in Pedagogia. Vulcanico e sanguigno, come la sua terra. Lui, che è nato in una terra che ribolle. E non solo di passione. Pioniere di moduli e teoremi, in ossequio al suo titolo di professore, sparse i semi della sua filosofia lungo le sponde meridionali del Mar Mediterraneo: in Tunisia e in Libia. Spinto dall’inesauribile ardore. Gli scorreva nelle vene, quello forte, anche per il suo Genoa. Da sempre innamorato del suo lavoro e del Grifone affermò: «Morirò parlando del Genoa» facendosi lucido profeta di quel che sarebbe poi avvenuto. Se n’è andato quindici anni fa. E vogliamo celebrarlo come si conviene. Con tutto il suo anticonformismo, il suo carisma e la sua simpatia. Con un sorriso.

Torniamo, per questo, sui banchi della vita. Per scrivere, insieme a lui, un nostro personale alfabeto di colleghi che, come lui, hanno dato tutto loro stessi in “sacrificio” a quel dio che, ogni domenica, fa scorrere su un rettangolo verde quella maledetta, adorata sfera di cuoio.

Aldo AGROPPI  

Istrionico, schietto. In una sola parola: toscano. Personaggio controverso, tanto capopopolo quanto catalizzatore di polemiche, l’ex centrocampista del Torino ha iniziato la sua carriera a soli trentasei anni sulla panchina del neo-retrocesso Pescara. Conquistata la salvezza con il Delfino, inizia la sua ascesa portando il Pisa in Serie A (1981-82) e sfiorandola con il Perugia (1984-85), con il quale conquista il record – tuttora imbattuto – di un’unica sconfitta durante il torneo cadetto. L’occasione della vita gli capita nel 1985-86 quando viene chiamato a guidare la Fiorentina in Serie A, ma una squalifica per omessa denuncia a seguito dello scandalo del calcio-scommesse dell’anno precedente segna il declino della sua carriera. Le brevi e infruttuose esperienze con Como ed Ascoli fanno da prologo al crollo vissuto con la Viola nella stagione che porta alla clamorosa retrocessione in Serie B, segnandone il ritiro dalle scene.

Eugenio BERSELLINI

Il compianto Sergente di ferro ha allenato sino alla soglia dei settanta anni. Di lui si apprezzavano l’etica sportiva e l’approccio focalizzato sull’aspetto umano prima che tecnico. Forse uno degli ultimi teorici puri di un calcio orientato alla conquista del risultato piuttosto che allo spettacolo. Dopo Lecce e Como, approda in Serie A con il Cesena al debutto assoluto nel massimo campionato. La grande occasione arriva nel 1977 quando lo chiama l’Inter dopo il biennio alla Sampdoria: in nerazzurro vince lo Scudetto nel 1980. Rimane a San Siro per cinque anni, poi Torino, di nuovo in blucerchiato e Fiorentina, Avellino ed Ascoli prima di salutare le grandi piazze. Tiene a battesimo moltissimi giovani, fra i quali spiccano i Gemelli del gol – Mancini e Vialli – durante la sua esperienza doriana, impreziosita dalla prima Coppa Italia sulla bacheca dei genovesi.

Luigi CAGNI

Un simbolo di Brescia e Sambenedettese: da giocatore, ha difeso i colori di entrambe per un decennio. Detiene ancora il record di presenze tra i cadetti. In panchina, però, lo ricordano per la sua epopea alla guida del Piacenza. Ha portato il club emiliano a giocarsela con le prime della classe grazie ad un collettivo tutto italiano, in forte contrasto con le i canoni dell’epoca. Per sette anni e mezzo il Garilli è stato la sua casa, seppur lo ricordino con affetto ad Empoli per aver accompagnato i toscani nel loro breve tour europeo nei preliminari di Coppa UEFA al termine della stagione 2006-07. Quella è l’ultima “vera” stagione alla guida di un club, viste le successive esperienze che l’hanno visto subentrare in corsa o essere allontanato. La sua ultima esperienza risale a tre stagioni fa. Ovviamente, con il Brescia.

Luigi DE CANIO

Credits: ANSA/STEFANO LANCIA

Definirlo girovago appare riduttivo. Ma con quattordici squadre guidate nel giro di venticinque anni come fare altrimenti? Inizia a farsi un nome nel campionato Interregionale con il Pisticci per poi salire gradualmente i gradini del gran calcio: Savoia, Siena, Carpi, Lucchese, Pescara ed infine Udinese. In Friuli disputa la prima stagione in Serie A conquistando un onorevole ottavo posto. Tenta il ritorno in Serie A con il Napoli qualche stagione dopo, fallendo l’obiettivo per un soffio. Salva il Siena per due campionati consecutivi nella massima serie, per poi ricoprire il ruolo di manager con il Lecce. E i risultati in Salento giungono puntualmente, grazie al successo tra i cadetti – e la successiva salvezza nel torneo successivo – che lo fa rimanere nei cuori dei giallorossi. La sua ultima esperienza si registra in C con la Ternana.

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